Uccise due poliziotti, assolto per infermità mentale, sentenza: 30 anni in una Rems. Torna la logica manicomiale. di Massimo Cozza
Una sentenza che rappresenta un ulteriore passo verso la strada del ritorno alla logica manicomiale, e della delega del controllo sociale alla psichiatria. Peraltro, alimentando lo stigma nei confronti di milioni di cittadini con disturbi mentali, ritenuti sempre più “pericolosi per sé e per gli altri” e da istituzionalizzare. Eppure, stante l’attuale legislazione la sentenza è pienamente legittima anche se la cura e la custodia rischiano di diventare un unicum, di competenza della psichiatria.
Assolto per il duplice omicidio di due poliziotti avvenuto nel 2019, ma per 30 anni dovrà rimanere rinchiuso in una REMS (Residenza per le Misure di Sicurezza). Questo ha stabilito la recente sentenza di Trieste, con la quale Augusto Meran è stato assolto per vizio totale di mente, non imputabile perché nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere (articolo 88 del Codice Penale).
Una sentenza che rappresenta un ulteriore passo verso la strada del ritorno alla logica manicomiale, e della delega del controllo sociale alla psichiatria. Peraltro, alimentando lo stigma nei confronti di milioni di cittadini con disturbi mentali, ritenuti sempre più “pericolosi per sé e per gli altri” e da istituzionalizzare. Eppure, stante l’attuale legislazione la sentenza è pienamente legittima.
Il punto di partenza fondamentale è senz’altro rappresentato dal vigente codice penale Rocco, approvato all’epoca fascista del 1930, frutto di una concezione lombrosiana della malattia mentale, ritenuta di natura organica, ereditaria, inguaribile e pericolosa.
Pertanto, nel 1930 pensarono ad una legislazione speciale per il “malato di mente”, il cosiddetto doppio binario, per il quale può essere giudicato non imputabile, assolto, ma, se giudicato socialmente pericoloso (fattispecie giuridica senza alcuna evidenza scientifica), internato in un manicomio criminale, poi OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario). Finalmente, con le leggi 9 del 2012 e 81 del 2014 gli ex OPG sono stati chiusi e le misure di sicurezza correlate alla pericolosità sociale sono state affidate ai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) delle ASL, e, come estrema ratio, alle REMS, che comunque costituiscono sempre strutture sanitarie degli stessi DSM.
È stata anche abolita la possibilità di continuare con i cosiddetti ergastoli bianchi, cioè il protrarsi delle misure di sicurezza detentive sine die, a prescindere del reato commesso. Con la nuova legislazione non si può rimanere in una REMS oltre il tempo massimo di detenzione che sarebbe stato correlato alla gravità del reato. Non è stato invece posto nessun limite alle misure di sicurezza non detentive.
Nel caso di Trieste, a fronte di un duplice omicidio, i 30 anni di misura di sicurezza detentiva in una REMS, appaiono formalmente ineccepibili dal punto di vista giudiziario ma inaccettabili dal punto di vista sanitario. Quale senso curativo e riabilitativo ha, oggi, una indicazione di 30 anni in una REMS, se non un ritorno alla logica manicomiale della incurabilità e della istituzionalizzazione?
E più in generale fino a che punto è appropriato continuare ad affidare le misure di sicurezza conseguenti alla pericolosità sociale, ripeto concetto giuridico e non scientifico, ai DSM?
La cura e la custodia rischiano di diventare un unicum, di competenza della psichiatria.
Quando è ormai acclarato che anche i reati commessi dalle persone con disturbi mentali, non in modo maggiore statisticamente significativo rispetto agli altri cittadini, non sono prevedibili, così come i suicidi. Si può certamente agire sui disturbi psichiatrici, con un’azione di prevenzione attraverso le possibili cure, ma senza capacità di controllo sulle tante variabili ambientali e della storia di ciascuna persona, che possono portare a gesti auto ed etero lesive a prescindere dai trattamenti, anche se i migliori possibili.
Negli stessi istituti penitenziari, non essendoci più la possibilità dell’internamento negli OPG per i detenuti con sopravvenuti disturbi mentali, viene sempre più richiesto l’intervento della psichiatria, non solo come intervento prettamente sanitario, ma anche per affrontare più in generale i disturbi del comportamento, che possono avere le più svariate origini, in particolare di natura ambientale e sociale.
Peraltro la stessa richiesta sta diventando sempre più pressante anche al di fuori del carcere, per disturbi comportamentali conseguenti a devianze sociali e a dipendenze.
E sempre più nei processi gli avvocati avanzano la richiesta di perizie psichiatriche per l’affidamento ai DSM, troppo spesso effettuate da periti che non provengono e non conoscono l’esperienza dei DSM, che invece sono poi deputati alla presa in carico, anche senza essere stati preventivamente consultati per i possibili trattamenti più appropriati.
In questo quadro la recente sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 2022 ha giustamente messo un punto fermo di non ritorno agli OPG, ma ha anche indicato la strada senza fine di un eventuale aumento del numero delle REMS, insieme alla strada giusta del potenziamento dei DSM. Con un forte richiamo verso la necessità e l’urgenza di un intervento chiarificatore di natura legislativa, che affronti le tematiche aperte. Basti pensare alle problematiche legate alle liste di attesa per entrare in REMS di circa 600 cittadini, dei quali una parte minoritaria in carcere, nelle situazioni più diversificate ma senza una chiara indicazione legislativa, con un pendolo oscillante tra l’esigenza della sicurezza della collettività e i bisogni di cure.
Da rilevare la scelta della magistratura di Trieste di trattenere in carcere il signor Meran, in attesa di entrare in REMS.
A volte, tra le soluzioni tampone, dalla magistratura viene data l’indicazione del ricovero in Spdc, consentito dal codice penale ma con una forte inappropriatezza clinica trattandosi di servizi ospedalieri per le persone con acuzie psichiatriche, con una media di ricovero di circa 12-13 giorni e non di svariati mesi.
Per quanto detto il sistema giustizia/salute mentale appare in forte criticità. C’è invece bisogno di chiarezza, se vogliamo mantenere e rilanciare i principi della legge 180 e delle stesse normative che hanno determinato la chiusura degli OPG.
Si tratta di avere il coraggio e la consapevolezza di riconoscere che è venuto il momento di cambiare dopo oltre 90 anni il codice penale, abolendo il doppio binario. La persona con disturbi mentali che commette un reato deve avere gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri cittadini. Quindi va sempre processata e, se ritenuta colpevole, condannata con le stesse pene, eventualmente per singoli casi con una specifica limitata attenuante.
Quindi sarà cura dei DSM, se realmente sussistono disturbi psichiatrici, intervenire all’interno delle stesse carceri, o, se possibile, preferibilmente nel territorio così come già accade per le dipendenze.
Inoltre, va finalmente posta all’attenzione della politica la questione della salute mentale nelle carceri italiane dove, secondo il recente XVIII Rapporto di Antigone, circa il 40% dei detenuti fa uso di psicofarmaci. Ma senza confondere la questione principale del disagio psicologico creato da una istituzione che avrebbe bisogno di più spazi, di più persone e più in generale di una maggiore umanizzazione, dai veri e propri disturbi psichiatrici per i quali c’è bisogno di una nuova organizzazione dei servizi di salute mentale negli istituti penitenziari, con risorse adeguate a partire dal personale, strettamente collegati con il territorio e con la loro autonomia sanitaria, anche se in stretto rapporto con l’amministrazione penitenziaria per creare un sistema virtuoso di sinergie.
Infine, come richiesto da più parti, c’è bisogno di un piano complessivo di rilancio della tutela della salute mentale, non solo con le necessarie risorse economiche e di personale, ma anche di natura culturale, contro lo stigma, mettendo al centro il paradigma bio-psico-sociale, rafforzando i DSM, partendo dai servizi per i minori e per gli adolescenti.
Ritornando alla sentenza di Trieste dei 30 anni di REMS, non rimane che riportare le parole del procuratore: “Io spero che questa tragedia serva a far uscire dal torpore la classe politica nella regolamentazione delle REMS, perché lo Stato deve dare una risposta adeguata al problema del folle reo”.
fonte: Quotidiano Sanità – SOS Sanità