Prendersi cura e costruire la pace: chi siamo. di Benedetto Saraceno

Benedetto Saraceno

Cittadini progressisti, uomini e donne di sinistra, ecologisti, pacifisti, militanti dei diritti, tecnici critici e consapevoli, operatori del sociale, operatori di pace… e così via; certamente potremmo trovare molte  altre parole che identifichino il presente storico di un “qualcosa” che appartiene a molti: un popolo, una nazione trasversale alle nazioni ufficiali, che unisce soggetti apparentemente diversi.

Possiamo chiederci “cosa” attraversi questa identità ossia cosa unifichi le culture della liberazione e dei diritti di cittadinanza, le istanze di uguaglianza, le culture ecologiste, le culture della pace e le culture (e le pratiche) della cura delle persone fragili.

È come una sorta di mappatura genetica: la presenza di un gene implica la compresenza di un altro così da formare un fenotipo morale e politico che vorremmo definire come il soggetto di una sinistra post-moderna.

  1. Costanti Valoriali

Tale fenotipo morale e politico si caratterizza per la presenza di alcune costanti valoriali, che non sono mai verbalizzate né descritte ma che purtuttavia esistono, vive, come fiumi carsici sotterranei.

  • Bontà invece che Cattiveria, Mitezza invece che Violenza e Rancore.

Bontà e Mitezza che si contrappongono alla cattiveria che cessa di essere un deficit individuale e diventa ideologia organizzata, che assume forme istituzionali potenzialmente sovversive, nel senso negativo del termine “sovversivo” che, Gramsci ci illumina, altro non è che «…l’avversione contro la burocrazia in cui si vede unicamente lo Stato…Questo odio generico  è ancora di tipo “semifeudale”, non moderno, e non puó essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il primo barlume, è solo appunto la posizione negativa e polemica elementare…»[1] .

La cattiveria quando cessa di essere deficit individuale ma diviene ideologia affermata, segno di potenza e determinazione dello Stato, diviene molto presto malvagia: “Dobbiamo riabituarci ad essere crudeli con la coscienza pulita”, raccomanda Hitler in Mein Kampf [2] (testo di cui non daró referenza bibliografica).

Troppo spesso dimentichiamo che  non è inscritto in alcuna idea di società che la bontà, nella sua accezione pubblica, non possa trovare le forme istituzionali che facciano di un governo non solo un Buon Governo ma anche un Governo Buono.

Dobbiamo  chiederci quali siano e come si differenzino le strade della Bontà e della cattiveria perchè certamente le strade della Bontà sono diverse da quelle della cattiveria.

Innanzitutto, sono strade che consentono velocità molto diverse: le strade della cattiveria sono veloci cosicché la cattiveria giunge rapida nei cuori delle persone e anzi si propaga rapidamente come benzina infiammata. Al contrario, le strade della Bontà sembrano tortuose e lente nel raggiungere i cuori.

Dobbiamo tuttavia fare un distinzione importante, ossia se dichiarare se parliamo di Bontà e cattiveria private o pubbliche, individuali o collettive. La distinzione è fondamentale.

La Bontà c’è, presente e radicata nel cuore intimo e privato delle persone, come fosse parte quasi naturale di esse: bontà di madri e padri verso i loro bambini, bontà verso le persone che si amano, “piccole virtú” che emanano dalla Bontà nel quotidiano dei molti che aiutano, che ascoltano, che soccorrono altri. Tutto però si gioca nel foro intimo delle relazioni private. Invece, la cattiveria è anche e soprattutto pubblica e diviene facilmente collettiva: certamente abbiamo più memoria di grandi imprese collettive guidate dalla cattiveria che di imprese guidate dalla Bontà. La cattiveria è trasmissibile come i virus, risponde a bisogni profondi e tacitati, ha bisogno di catalizzatori pubblici, autorevoli, che giustifichino ai singoli la malvagità dei ciascuni perchè prodotta insieme a molti altri. La cattiveria comincia sempre con le parole, parole  di odio che servono a descrivere e definire il nemico su cui esercitarsi. In seguito, la cattiveria diventa anche fisica, ossia la violenza verbale prepara alla violenza sui corpi delle vittime.

J Stuart Mill dice che per la cattiveria è sufficiente che gli uomini buoni guardino e non facciano nulla e Camus dice che la cattiveria va di pari passo con l’ ignoranza. Dunque, una politica che promuove una collettività ignorante e dove i buoni stanno a guardare  diviene facilmente una comunità dell’odio.

Ecco il compito: non stare a guardare, combattere l’ignoranza  e liberare energia politica per generare conflitti che aprano i cuori al bene pubblico e alla common decency (“the freeequal and decent society”) di cui parla  Orwell, e che “oggi si può intendere anche come   la capacità degli esseri umani di vincolarsi reciprocamente uscendo dalla chiusura autistica del puro consumo o della propria fragilità”[3] .

Bisogna dirselo e dirlo con chiarezza: la Bontà e la Mitezza non sono virtú passive cosí come la Speranza non è la pazienza ingenua per un domani migliore ma un progetto presente affinchè l’impossibile divenga possibile. Bontà e Mitezza escono dalla dimensione della passività, della sconfitta, del silenzio umiliato per trasformarsi in strumenti della politica: la bontà corporea e privata puó diventare energia politica collettiva. “La mitezza è l’opposto della passività. È un lavoro continuo, tenace e perseverante. La mitezza è anche la beatitudine dei poveri che riescono a stare e vivere in condizioni impossibili per i non-mansueti. La mitezza la incontriamo molto spesso tra gli anziani e i vecchi. I miti abbracciano, stringono, piangono insieme, e sanno che non si conosce qualcuno senza averlo stretto al petto, senza avergli baciato le guance nel bacio della pace. Conoscono e usano il linguaggio umile e forte del corpo, la lingua delle carezze, sono maestri della tenerezza e dell’intelligenza delle mani.”[4].

Infine, “Beati i miti perchè avranno in eredità la Terra”: la conferma di questa valenza “politica” della mitezza è costituita dal fatto che la beatitudine evangelica conferisce ai “miti” il “possesso della terra”: ai miti viene affidato il compito di governare il mondo e di custodirlo come proclamato dalla enciclica Laudato sí. Si tratta di custodire tutto il mondo, la natura e gli esseri viventi, cosicché nessuno sarà ridotto a scarto, nessuno confinato a vita nuda.

  • Speranza invece che Rassegnazione cinica.

Si tratta di contrastare  una cultura che individualizza e privatizza  il “social suffering” rendendolo caso personale, che psicologizza la disperazione, la rabbia e il dolore, che dichiara l’impotenza a ogni trasformazione sociale. Una cultura che, piano piano, silenziosamente, spinge tutti, inconsapevolmente, a dichiarare  che la speranza e l’utopia appartengono all’universo degli adolescenti sognatori o degli adulti che non vogliono crescere. Speranza e Utopia divengono così sinonimi di mancanza di realismo, di immaturità psicopolitica, di pericolosa germinazione di radicalità incontrollate e incontrollabili.

Invece, è urgente e necessario, non certo invocare Speranza e Utopia per inverare il regno dei Cieli ma, piuttosto, attraverso il fertile approccio di pensare l’impossibile come possibile, acquisire strumenti nuovi e innovativi di conoscenza e scoprire strumenti di trasformazione che non riuscivamo neppure a immaginare.

Chi poteva immaginare cinquanta anni fa le conseguenze straordinarie della idea e della prassi della deistituzionalizzazione, della infinita creatività e virtuosità della impresa sociale, della carità come azione intelligente di trasformazione e di affermazione dei diritti?

Chi poteva immaginare che credenti e non credenti potessero incontrarsi intorno ad unica cattedra che coniugava conoscenza, tolleranza e misericordia? Il pensiero utopico di Franco Basaglia o il pensiero di speranza di Carlo Maria Martini si sono caratterizzati per coraggio intellettuale e morale allorchè hanno innovato la conoscenza e permesso e promosso la trasformazione.

Dunque, ricercare l’impossibile della Speranza e della Utopia; abbandonare le certezze ideologiche; rinunciare alle identità forti. Una bellissima affermazione della giovanissima Anna Frank ci potrebbe dare il coraggio necessario a intraprendere tale cammino a ritroso: “È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo”[5].

Come dire che è necessario perdere la prudenza del possibile e ritrovare il coraggio delle utopie, ossia è necessario e urgente  perdere quel pragmatismo che usura fino al cinismo (e che molti chiamano maturità) per ri-trovare innocenza e generosità. Non si tratta qui di invocare una nozione puerile  di innocenza e generosità  ma di riscoprire la condizione morale di “chi non ha fatto del male a nessuno” ed è quindi senza colpa, di chi  vuole ignorare il male perseguendo una purezza di azione disinteressata e quindi generosa.

Dunque, ci vuole un nuovo coraggio, coraggio di pensare la speranza che, dice papa Francesco,  «non è un ottimismo, non è quella capacità di guardare le cose con buon animo e andare avanti. No, quello è ottimismo, non è speranza. Né la speranza è un atteggiamento positivo davanti alle cose….Ma cosa è la speranza? Cosa è questo atteggiamento di speranza? Per avvicinarci un po’, possiamo dire in primo che la speranza è un rischio, è una virtù rischiosa, è una virtù, come dice San Paolo – di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio -. Non è un’illusione»[6].

Si tratta allora di  perdere le certezze e ritrovare interrogativi, ossia fare del dubbio un metodo e cosí disegnare un vero progetto di ricerca. C’è infatti una urgenza che è al tempo stesso conoscitiva, morale e politica.

Una urgenza a perdere identità per ritrovare umanità: tornare a toccare la corporeità del dolore e della sofferenza, rinunciare ad essere ferocemente bianchi, cristiani, sani e benestanti per potere riuscire ad  annunciarci a chi è “altro” da noi. Una urgenza a perdere certezze per ritrovare possibilità di ricerca. Si tratta proprio di adottare l’atteggiamento metodologico del ricercatore che costruisce protocolli di ricerca a partire dal dubbio e dalla incertezza. Non possiamo infatti continuare a replicare la ricerca che sappiamo già, a replicare una sorta di sociologia descrittiva che innanzi a una pipa ci dice che quella è una pipa invece che sfidarci, con La Trahison des images di René Magritte, che illustra una pipa con la scritta « Ceci n’est pas une pipe»; non possiamo continuare a replicare quelle  scienze psicologiche che innanzi alla indicibile sofferenza di una madre che viene da lontano e tiene fra le braccia il suo bambino morto affogato, pretendono di “dire e spiegare” l’indicibile, pretendono di denominare e dunque dominare la inconoscibilità dell’altro.

Dunque, pensare la Speranza e l’Utopia come possibili Nord cui dirigere la nostra navigazione. Ancora è Basaglia a indicarci che la impensabile rivoluzione copernicana che trasforma il chiuso in aperto, il disumanizzato in umano, il miserabile in cittadino è tuttavia stata davvero “pensata” e davvero “agita”, è realmente successa e ha reso possibile l’impossibile.

Si tratta di fare della Speranza un vero e proprio lavoro (“Hoffnung arbeit”) nel senso freudiano del  Traumarbeit o del TrauerarbeitFare della speranza un lavoro politico.

  • Consapevolezza che tutti, proprio tutti, sono produttori di senso ossia che tutti ”hanno valore”.

Che non vi sono identità dotate di più senso, dignità e diritti di altre.

Non va sottovalutata, come ci ricorda Gramsci,  la «apoliticità fondamentale del popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali) , apoliticità irrequieta, riottosa, che permette ogni avventura, che dava a ogni avventuriero la possibilità di avere un seguito…»[7]. Si viene creando in molti paesi europei (compresa l’Italia prossima ventura) quella “illusione dell’identità unica” di cui parla Amartya Sen quando scrive: “E’ piú che naturale che quelli che per mestiere fanno gli istigatori di violenza cerchino di creare l’illusione della identità unica, da sfruttare per creare una contrapposizione, e non è un mistero che questo tipo di riduzionismo sia un obbiettivo perseguito”[8]. Al contrario, tolleranza e solidarietà, multiculturalismo e rispetto dei diritti  sono sentimenti e valori che possono e che devono essere edificati da chi ha responsabilità pubblica attraverso strategie e azioni che dichiarino la possibilità concreta di un progetto di società piú giusta, piú tollerante e accogliente. Dunque rifiuto della cultura e del dominio dei vincenti.

La giustizia sociale, le pari opportunità, i diritti di cittadinanza sono patrimonio inalienabile di tutti. Non ci sono detentori deboli e detentori forti di diritti. Educazione, Salute e Lavoro sono diritti e non ci possono essere differenziazioni di classe, di nazionalità di etnia o di religione. Tutti hanno valore e soprattutto tutti hanno lo stesso valore.

Dunque i fondamentali chiamiamoli con il loro nome di sempre: salute, educazione, lavoro, parità di genere, equità fiscale, inclusione sociale.

  • Rifiuto della cultura dello scarto.

Scarto umano ossia vite nude senza voce e diritti e scarto materiale come prodotto di una logica e economia lineare che non prevede il recupero dello scarto.

C’è,  vigente, una ideologia dello scarto e c’é anche una pratica dello scarto, quest’ultima talvolta inconsapevole. Se la ideologia dello scarto riflette una visione mortifera dell’uomo e della natura basata sul profitto, spesso la pratica dello scarto, quando non é realizzata a livello macro (pensiamo al ruolo delle industrie della deforestazione o della estrazione dei combustibili fossili) il piú delle volte è figlia di inconsapevoli ma irresponsabili culture consumistiche dell’usa e getta. Scrive Guido Viale: “Lo scarto evidenzia innanzitutto il modo di funzionare di un’economia lineare e non circolare: di un’economia, cioè che aggredisce le risorse della Terra senza curarsi degli equilibri dell’ambiente da cui vengono prelevate, per trasformarle il più rapidamente possibile in rifiuti, cioè in cose di cui non si sa più che fare, che vengono restituite all’ambiente in forme che contribuiscono al suo degrado”[9].

Coloro che vengono dalle grandi esperienze e lotte di liberazione degli “ultimi” (nei manicomi, nelle carceri, nelle istituzioni totali per bambini) conoscono bene però anche un’altra economia dello scarto ossia quella che degli scarti umani.

La funzione regolatoria degli scarti dalla normalità, tipica della psichiatria istituzionale così come del carcere, non è certo scomparsa malgrado riforme e buone pratiche : l’idea di contenimento delle libertà e delle vite di scarto è ancora vigente.

Si ha la chiara percezione che la spinta trasformativa si sia arrestata lasciando spazio a processi di burocratizzazione delle vulnerabilità e della sofferenza. Si ripropongono etichette collettive tanto rassicuranti quanto prive di senso e di umanità: «i tossicodipendenti», «gli acuti », i «senza fissa dimora», gli  « immigrati » e si rafforzano le molte istituzioni contenitive come le residenzialità,  i servizi di diagnosi e cura, le cliniche convenzionate, le istituzioni per anziani  e quelle per i gravi disabili.

Ancora una volta, si alimentano pseudo identità che annullano soggettività, storicità, individualità : identitá di scarto da « sommare » a quelle dei delinquenti, dei rifugiati, dei rom. La saga delle tribù identitarie che non esistono in natura ma che fanno comodo alle soluzioni spicce non si è mai arrestata. Se negli anni ’80 dicevamo che si doveva “ristoricizzare il lungodegente”, oggi bisogna ristoricizzare tribu intere di soggetti vulnerabilizzati dalla esclusione sociale e dalla perdita di diritti: senza documenti, senza casa, senza storia, senza soggettività, scarti scartati.

Infatti,  la cultura dello scarto non riguarda solo l’ambiente ma, come ancora Guido Viale scrive, essa  “si trasferisce e investe il nostro rapporto con l’essere umano, con il nostro prossimo. L’essere umano ridotto a risorsa, che vale solo perché ci serve, è condannato al destino di scarto non appena non serve più: di qui l’emarginazione  di una parte crescente dell’umanità, ma anche il suo sfruttamento fintanto che può “servire”, cioè avere un ruolo nell’alimentare i cicli della produzione e del consumo”[10].

Gli spazi per rigettare le vite di scarto sono tutte le istituzioni totali e quindi non solo manicomi e carceri ma anche i campi per migranti e rifugiati ed esse devono costituire il rinnovato fronte di lotte e di possibili liberazioni.

Il mare Mediterraneo é certamente divenuto la piú grande e efficiente istituzione totale per gettare vivi e morti che non si sa dove mettere, cosicché un ambiente tanto naturale quanto devastato dall’inquinamento é divenuto il luogo concreto e simbolico ove sono rigettati  sia gli  scarti umani sia i rifiuti.

Proprio a  partire dalla “Laudato Sí” (e da alcune sue letture e ri-letture molto stimolanti[11]) é possibile ritrovare un filo rosso che unisce e fornisce senso a pratiche e lotte apparentemente fra loro distanti ed eterogenee: la cosiddetta conversione ecologica non determina soltanto convivenza armoniosa con la natura ma anche convivenza fra esseri umani. Si tratta di volere riconvertire modelli produttivi lineari e produttori di scarti in modelli circolari compatibili con la protezione dell’ambiente ma questo significa anche riconvertire le dinamiche sociali ed economiche che producono scarti umani per costruire compatibilitá fra gli esseri umani e i loro diritti fondamentali.

Credo che sia urgente, necessario e utile ri-leggere, e ri-formulare in alcuni casi,  il ricco e complesso vocabolario delle teorie e delle pratiche della liberazione, delle lotte alla esclusione sociale, delle azioni di inclusione sociale e di promozione dei diritti: una rilettura e riformulazione alla luce della prospettiva della “ecologia integrale” ossia della compresenza di tutela dell’ambiente e natura e di tutela dei diritti e della giustizia.

Per troppo tempo abbiamo visto militare in favore di una Umanitá scartata e ultima ma senza preoccuparsi del Pianeta in cui essa vive e muore cosí come per troppo tempo abbiamo visto militare per una Natura costantemente aggredita e divorata senza troppo preoccuparsi della Umanitá che la abita .

E’ tempo che che ci si parli, che si uniscano e si unifichino  battaglie solo apparentemente distanti fra loro, che si rendano compatibili i linguaggi, che le pratiche virtuose per un umanitá non scartata non scartino peró  la Natura e quelle per un ambiente protetto e non devastato non scartino peró gli uomini, le donne e i bambini che ogni giorno quell’ambiente  attraversano.

E’ tempo di coesione e di mobilitazione dura e determinata perché i nemici dell’uomo, della donna e della natura sono sempre gli stessi.

  1. La Cura dei fragili e non autosufficienti come paradigma della Cura del Mondo.

Se queste sono le unità/parole che compongono il grande algoritmo che identifica una nuova possibile sinistra vi è, trasversale ad esse, la idea antica e potente che privato e pubblico, individuale e collettivo, personale e istituzionale sono dimensioni non solo interattive e embricate ma indispensabili per trasformare la realtà e per contribuire al bene comune e individuale.

La Cura diviene allora la parola chiave e che consente connessioni apparentemente difficili da intravedere.

La cura è il nuovo nome della pace, dice don Renato Sacco di Pax Christi e la Cura è al centro della tematica della marcia della Pace di Assisi di quest’anno.

“Dobbiamo sviluppare una mentalità e una cultura del -prendersi cura- capace di sconfiggere l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono. Cura delle giovani generazioni, cura della scuola, cura degli altri, cura del pianeta, cura del bene comune e dei beni comuni, cura dei lavori di cura, cura della città, cura dei diritti umani, cura della democrazia… C’è bisogno di una politica e un’economia della cura”[12].

Come non essere d’accordo, ma cosa intendiamo quando usiamo la parola Cura in ognuno di questi specifici e ben distinti universi: dai giovani al pianeta, dalla democrazia ai diritti umani. Sembra, ancora una volta, che la parola Cura si riferisca ad un troppo vasto contenitore ove si stipano universi che, ciascuno separatamente, meriterebbe analisi, definizioni, politiche, strategie, interventi.

“A livello più generale, suggeriamo, che la cura venga considerata come una specie di attività che include tutto ciò che noi facciamo per conservare, continuare e riparare il nostro mondo in modo da potervi vivere nel miglior modo possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa di sostegno alla vita”[13] . Questa citazione è da Joan Tronto che in un saggio classico del femminismo sistematizza la nozione della Cura, la sua etica e la sua politica. Non è certo un caso che sia una femminista a offrire una lettura articolata e innovativa della nozione di Cura, anche contestando la idea che l’etica della cura appartenga al pensiero morale ed emozionale femminile in contrapposizione alla etica dei diritti tipica del pensiero morale e razionale maschile. Non è così, e la cura invece è un insieme di pratiche che possono essere esercitate sia da uomini sia da donne: la cura, dunque, non è tipica o naturale di un genere rispetto a un altro. Invece, troppo spesso la femminilizzazione della cura viene ritenuta “naturale”, perché legata a un imprecisato istinto materno. In tal modo il sistematico sfruttamento delle donne nelle attività di cura viene santificato ma non riconosciuto come una risposta non retribuita a un diritto, il diritto di coloro che hanno bisogno di essere accuditi e assistiti.

La cura non è né femminile né maschile perché essa è semplicemente umana.

Le pratiche della Cura costituiscono una immensa mole di lavoro che, tuttavia, “continua a essere svolto, di solito senza retribuzione e senza che venga pubblicamente riconosciuto come lavoro. Organizzarlo in modo da non sfruttare coloro che si prendono cura degli altri sembra essere un altro compito centrale di una società giusta. Un tempo si era soliti ritenere che questo lavoro dovesse essere svolto da persone (soprattutto donne) che non erano cittadini a pieno titolo e che, comunque, non avevano bisogno di lavorare fuori casa. Alle donne non era chiesto se volessero farlo: era semplicemente il loro dovere, e si riteneva che lo svolgessero per scelta, per amore, anche se di solito avevano poche possibilità di decisione in merito”. Questa lunga citazione da Martha Nussbaum [14] contiene tutti gli elementi utili a una discussione approfondita sulla nozione di Cura. Ci dice la Nussbaum che la cura non solo è una attività non retribuita ma che essa viene assegnata a persone che non godono pienamente dei diritti dei cittadini oppure viene assegnata alle donne, dunque, in qualche modo assimilate a una categoria di persone con diritti più limitati rispetto agli “altri” cittadini (gli uomini). Ancora, ci dice la Nussbaum che la pratica della cura non viene scelta dalle donne ma è ritenuta doverosa (in quanto “naturale”) e infatti è compiuta “per amore”, dunque per naturale istinto (materno) verso chi di cura e accudimento ha bisogno. Infine, essendo la cura una pratica che scaturisce dall’amore, essa è, per sua natura, un fatto privato e intimo. La Nussbaum riesce a cogliere tutte le distorsioni che, a tutt’oggi, caratterizzano la retorica della Cura.

In contrasto con tale retorica dobbiamo affermare che la cura non deve essere considerata come valore esclusivo del mondo vitale delle donne ma occorre piuttosto rivendicarlo come centrale nella vita umana. Inoltre, la Cura non è una dimensione esclusivamente emozionale e privata ma appartiene anche alla dimensione sociale e pubblica. Tale dimensione pubblica pone quindi la Cura al di fuori della esclusiva sfera del privato, regolato da contratti individuali e affettivi ma la pone anche dentro una dimensione pubblica e istituzionale, in quanto Diritto. Infatti, chi ha bisogno di accudimento, di cura e assistenza continua non è soltanto un essere umano che merita pietà ma un cittadino che esige un diritto: la cura è un diritto.

Troppo spesso invece, la cura, malgrado sia un diritto, per chi ne ha bisogno resta una oblazione da parte di chi la presta. È questo il caso della assistenza e accudimento ai disabili e agli anziani non autosufficienti. Al diritto di queste persone viene offerta esclusivamente la oblatività/dovere dei famigliari senza che tale “servizio” venga riconosciuto, sostenuto, finanziato.

La cura si occupa di bisogni corporei, di bisogni psicologici ma anche di bisogni organizzativi e amministrativi. La cura cioè si occupa anche di quello che l’antropologo americano Arthur Kleinman ha definito “social suffering”.

Nella cura si coniugano atti intimi e privati e atti sociali: la cura è anche una pratica sociale che richiede “politiche”, finanziamenti e sostegni. Come scrive Kleinman, la Cura è in cerca di una propria collocazione a pieno diritto nella agenda della salute[15]e, dunque, essa ha bisogno di entrare a fare parte della formazione degli operatori della sanità, della cultura degli amministratori e dei pianificatori e deve essere riconosciuta come una componente centrale della salute umana e della sanità.

Non vi è dubbio che la cura sia al tempo stesso un’azione gratuita e una pratica professionale. L’esistenza di un legame personale fra curato e curante può essere benefica ma anche divenire un fattore di rischio per l’eccessivo coinvolgimento e il rischio di burn-out. D’altra parte, se l’assenza di legame può rappresentare una garanzia di maggiore competenza e professionalità, al tempo spesso può determinare una assenza di empatia. Dunque, si tratta di equilibri delicati che richiedono maturità emotiva, responsabilità,  competenze e sinergie fra dimensione privata e istituzioni pubbliche. Inoltre, la Cura è un processo continuativo e non può essere occasionale in quanto si protrae nel tempo e all’interno di una o più relazioni. Ecco perché la cura necessita sia continuità sia del coinvolgimento di un numero ragionevolmente limitato di persone per evitare che si trasformi in occasionale accudimento materiale, senza empatia. I soggetti che hanno bisogno di assistenza e accudimento hanno infatti bisogno di affidarsi a pochissime persone e non possono adattarsi a un turn over casuale e burocratico di troppi operatori.

Allora, diciamo che la cura è un insieme di azioni tangibili, concrete e misurabili ma essa si invera soltanto se prestata insieme ad attitudini intangibili quali gentilezza, delicatezza, discrezione, rispetto. Dunque, la cura è azione pratica e affettiva al tempo stesso. Questa doppia natura richiede competenze pratiche e competenze affettive. Spesso i famigliari mancano delle prime e gli operatori sanitari delle seconde.

Questa doppia natura della Cura costituisce in sostanza la sua complessità e la sua trasversalità nella vita di ognuno: una attività alta e profondamente umana poiché coniuga l’intimità segreta e privata dei corpi, la gentilezza e il rispetto per i viventi, le pratiche umili e quotidiane dell’accudimento ma anche la consapevolezza di non essere solamente solitari produttori di oblatività ma parti di una comunità umana e sociale fatta di solidarietà e di concreti sostegni istituzionali. La cura è dunque un complesso atto bio-psico-socio-politico.

Se sappiamo curare sapremo costruire la pace e se sapremo costruire la pace potremo dire in modo non retorico che scegliamo la cura e rifiutiamo le bombe.

  1. Conclusioni per i tempi correnti

Forse è questo “essere di sinistra”, ossia pensare che il privato è pubblico e viceversa, pensare che l’istituzionale senza il personale diviene un mostro ma che il personale senza l’istituzionale diviene un cammino solitario fatto di eroismi e di egoismi, pensare che non c’è Io senza Noi, che i ciascuni sono parte dei tutti e che fra i tutti continuano ad esistere i ciascuni. Forse “essere di sinistra” significa pensare che che esistono diritti dei ciascuni e diritti dei tutti e che è possibile una socirtà ove tali diritti, dei ciascuni e dei tutti, non siano mai avviliti e silenziati ma promossi e sviluppati per costruire il saggio equilibrio fra bisogni individuali e bisogni collettivi.

E credere e militare per la pace altro non è che credere e militare per l’idea di felicità come dimensione politica e pubblica,  la felicità come dimensione pubblica e condivisa: “Whatever is publicly useful, is to be done. The common good of all being collected into one total”[16] (G. W. Leibniz,1680)[17]. La nozione di “public happiness” è “vecchia” e la troviamo non solo in Leibniz ma in seguito in Ludovico Antonio Muratori che nel 1749 pubblica l’opera intitolata Della Pubblica Felicità (L.A. Muratori, 1749)[18].

Il perseguimento della “public happiness” si fonda sulla speranza o sulla utopia della sua raggiungibilità.

La speranza biblica e cristiana non significa un sogno puerile di un mondo migliore, al di là da venire. La speranza cristiana non è generata da un processo di proiezione del desiderio del bene ma è radicata nell’oggi di Dio presente.  Il “Principio Speranza” di cui ragiona Ernst Bloch si riferisce, non solo all’ ”esame costante che media la struttura del cammino con lo scopo finale ma, con maggiore urgenza, nelle implicazioni dello scopo lontano in ogni scopo prossimo affinchè anche questo possa essere uno scopo” (E. Bloch E, 1971)[19]. La relazione dinamica fra qui e oggi e là (al di là) domani è centrale per cogliere le radicali implicazioni per la ricerca della felicità pubblica come parte fondamentale del esercizio della speranza.

La pratica della cura, vissuta sia come soggetti privati sia come cittadini che attraversano le istituzioni della cura, è ciò che più efficacemente ci educa a prenderci cura delle fragilità umane e non umane che caratterizzano il mondo in cui viviamo. La fragilità e il bisogno di cura appartiene infatti ai singoli ma anche a gruppi e popolazioni e anche alla natura in cui abitiamo: uomini, donne, bambini ma anche fiumi, mari e foreste, quando  diventano fragili, domandano cura.

La pratica della cura educa alla cura del mondo e la cura del mondo non può che essere anche cura, promozione, difesa della pace. La pace è il contesto necessario della cura del mondo e dei tutti che lo abitiamo.

Chissà se questo processo umile e caparbio dall’intimità della relazione di cura fino alla mobilitazione politica per curare il mondo non rappresenti la strada, l’unica strada possibile, per costruire un mondo che operi contro la necessità della guerra.

note:

[1] Gramsci A. Quaderni del Carcere, q. XX. In Passato e Presente. p. 32. Editori Riuniti, Roma 1971.

[2] « Wir müssen das gute Gewissen zur Grausamkeit wiedergewinnen»

[3] Gianandrea Piccioli, Psicopolitica: Visioni della Quotidianità in Volere la Luna, 4/02/2019

[4] Luigino Bruni:  La intelligenza delle mani miti, L’Avvenire, sabato 19 settembre 2019

[5] Anna Frank, Il diario di Anna Frank, XV ed., pag 231-232, traduzione di Arrigo Vita, Mondadori, 1966.

[6] Papa Francesco. Omelia. Casa Santa Marta ,29 ottobre 2013

[7] Gramsci A. Quaderni del Carcere, q. XIV.In Passato e Presente. p. 30. Editori Riuniti, Roma 1971.

[8] Sen Amartya. Identità e Violenza. p-178. Editori Laterza. Roma-Bari, 2008.

[9] Viale Guido. Scarto e cultura dello scarto. In: https://www.laudatosii.eu/contributi-e-documentazione/

[10] ibidem

[11] Si veda a questo proposito il fondamentale « Documento Programmatico-Laudato Si’-»,  www.laudatosi-alleanza-clima-terra-giustizia-sociale.it

[12] (https://www.sempionenews.it/cultura/marcia-della-pace-perugia-assisi-la-cura-e-il-nuovo-nome-della-pace/?cn-reloaded=1).

[13] Fischer B. and Tronto J.C. Towards a Feminist Theory of Caring.Circles of Care Abel E.K and Nelson M (edts). Suny Press. Albany, 1990, p.30. In: Battaglia L. Etica e politica della cura. 2021. NOTIZIE DALL’ISTITUTO ITALIANO DI BIOETICA. https://www.istitutobioetica.it/137-aree-interesse/biogiuridica-e-biopolitica/biopolitica/361-luisella-battaglia-etica-e-politica-della-cura-per-una-nuova-idea-della-cittadinanza

[14] Nussbaum M.C. Le nuove frontiere della giustizia. Il Mulino. Bologna, 2007. p.120.

[15] Kleinman A. Care: in search of a health agenda. 2015. Lancet. 386, July 18, 240-241.

[16]  Ogni cosa che sia di pubblica utilità deve essere fatta. Il bene commune è quello di ognuno riunito in un tutto.

[17] Leibniz, Gottfried Wilhelm 1680. On Public Happiness. 1985, p.613. Paris: GastonGrua 1948; repr. New York: Garland Ed.

[18] Muratori, Ludovico Antonio 1749. Della pubblica felicità. 1996 Roma: Donzelli Editore.

[19] Bloch, Ernst 1971. Fonti morali e finali del coraggio di vivere. In Bloch E: Ateismo nel Cristianesimo, p.313. Milano: Feltrinelli.

Fonte: SOS Sanità

ndr: l’Autore è presidente del LISBON INSTITUTE of Global Mental Health, promotore della Rete Salute Welfare Territorio

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