Franco Rotelli, la psichiatria come utopia concreta. di Stefano Cecconi
Franco Rotelli aveva un pregio assai raro: quello di voler trasformare i sogni in realtà, e il talento di saperlo fare. Certo, non sempre e non tutti i sogni si avverano. Ma se Rotelli è stato definito, anche in questi giorni, un «visionario concreto», è perché «sognava e agiva», nei diversi ruoli che ha ricoperto, per migliorare la vita delle persone, i contesti sociali, i servizi e il lavoro del welfare.
Lo ha fatto, insieme a Basaglia, e dopo, per distruggere i manicomi: da Castiglione a Trieste fino a Leros. E per costruire le alternative alla non-vita del manicomio: libertà, reddito, casa, lavoro, affetti, e Servizi sempre aperti e accoglienti.
Nel suo straordinario lavoro, professionale e politico, nel suo essere promotore del movimento per il diritto alla salute, ci ha insegnato che, per prendersi cura di una persona, occorre prima di tutto garantire i suoi diritti, la sua libertà, rispettarne la dignità. Questo significa agire contro ogni esclusione, contro ogni repressione e discriminazione.
Tutto ciò presume che esista un sistema sanitario pubblico e universale, capace di integrare le sue politiche e le sue azioni con tutte le altre componenti del welfare: sociali, abitative, formative, per l’occupazione. Per questo Rotelli diceva spesso: occorre abbattere i muri, non solo del manicomio, ma anche tra Istituzioni, tra Asl e Comuni, tra professioni diverse. Perché la persona, tanto più se malata, esprime bisogni globali, non solo strettamente sanitari o meramente clinici. Perché i determinanti di salute e malattia, le stesse speranze di guarigione, si rintracciano ben oltre i ristretti confini e poteri della medicina tradizionale: reddito, istruzione, ambiente, occupazione, condizioni di lavoro, contesto sociale e familiare, genere, segnano il destino di una persona, persino la sua speranza di vita. È la visione “globale” del concetto di salute dell’Oms, rimasta spesso una mera dichiarazione, che invece con Franco Rotelli è diventata obiettivo possibile da raggiungere.
Nel ricordarlo in questi giorni, è stato scritto che le sue intuizioni hanno provocato innovazioni straordinarie nel sistema di welfare socio sanitario, ben oltre Trieste. Ci si riferiva certo al lavoro enorme di de-istituzionalizzazione fatto nell’ex ospedale psichiatrico di Trieste, con l’apertura di centri di salute mentale h24, trovando soluzioni abitative «normali» in città, la creazione delle cooperative sociali per il diritto al lavoro, fino alla radicale trasformazione del parco di San Giovanni, luogo di repressione e dolore diventato un magnifico esempio di rigenerazione urbana. Ci si riferiva al sostegno, sempre lucido e affettuosamente critico, che ha dato alla lotta di stopopg che ha portato alla chiusura dei manicomi giudiziari, e alla campagna contro la contenzione «E tu slegalo subito». Ci si riferiva alla geniale intuizione delle micro aree, avamposti dei servizi della «Città che cura», che agiscono in quartieri «difficili» (oggi 14 zone di Trieste), dimostrando che si può cambiare, partendo dal piccolo e nei luoghi più disagiati. Ci si riferiva alla centralità che ha assegnato al distretto socio sanitario, motore pubblico di un sistema di servizi, azioni e professioni integrate per fare salute di comunità, di prossimità, nei luoghi di vita delle persone, anticipando persino alcune riforme del Pnrr.
Quello promosso da Rotelli – e da chi con lui ha lavorato in questi anni – è stato uno straordinario percorso di innovazione e cambiamento del sistema di welfare pubblico, fondato sulla deistituzionalizzazione e sulla centralità della persona.
Oggi questo modello è messo in discussione dalla maggioranza che governa la Regione (e da un Governo che abbandona la sanità pubblica): impedire che accada non è solo una questione locale, è ragione per riprendere, proprio nel segno di Franco Rotelli, una mobilitazione nazionale.
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