Dopo l’OPG e oltre le REMS: un sistema giudiziario e di cura di comunità. di Pietro Pellegrini
Intervento di Pietro Pellegrini Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma a Mat 2021, Modena 21 ottobre 2021
E’ possibile un sistema di cura e giudiziario di comunità? Sì è possibile.
Lo è sul piano teorico se con comunità intendiamo tutte le persone che si trovano su un territorio. In questa accezione nessuna persona o luogo, compresi il carcere, i centri per migranti, le Case residenze anziani, le REMS sono “extracomunitari”. Non lo sono in relazione alla loro esistenza nel reale, ma anche per la loro rilevanza nei vissuti, nell’immaginario, nel mondo interno delle persone e nelle rappresentazione delle famiglie e dei gruppi sociali. La comunità reale, immaginaria, vissuta, ideale ha una rilevanza fondamentale per la salute (che è un diritto ma anche un bene comune, individuale e relazionale al contempo) e il benessere sociale così le istituzioni o le modalità con cui si rappresenta la follia, la devianza, il male, la morte.
Ciascuno e tutti insieme abbiamo un’idea su cosa sia la violazione ed abbiamo interiorizzato prima ancora di ogni legge come si regola la relazione con l’altro. Ogni gruppo ha le sue dinamiche e culture molto potenti. Anche il tentativo di rendere extracomunitari determinate persone, eventi (la morte, il dolore) e luoghi non solo si scontra con la realtà della loro (ineliminabile) presenza ma finisce anche con il potenziare la contraddizione, i vissuti di insicurezza, di preoccupazione e persecutori. Un discorso che va ripreso e richiede ascolto e dialogo per ridare senso, connettere e ricucire tessuti lesi. Non vado oltre.
Si può fare nella pratica: gli OPG sono stati chiusi tramite il sistema di welfare di comunità in particolare tramite i DSM non le REMS. Si stima perché non vi sono dati ufficiali e in fondo non pare di grande interesse per nessuno averne, che vi siano circa 6.000 persone con disturbi mentali e provvedimenti giudiziari seguiti sul territorio dai Dipartimenti di Salute Mentale. Il 70% di questi pazienti è ospite di Residenze occupando circa il 15% dei posti disponibili e comportando una spesa annua intorno ai 300milioni di euro. Il sistema di salute mentale di comunità, sostanzialmente senza alcun incremento di risorse, si è fatto carico del problema. Tra l’altro positivamente sia in termini di salute che di sicurezza, visto il limitato tasso (inferiore al 5%) di recidiva nei reati.
Poi vi sono le REMS che nel complesso assicurano circa 652 posti con un buon turnover ma con una tendenza all’allungamento della degenza per un effetto accumulo dei pazienti con reati gravi e durata delle misure prolungato (5-10 anni) che ovviamente non devono essere trascorsi in REMS ma su questo occorre una maturazione delle pratiche.
Il tema lista di attesa, la cui entità è difficile da quantificare non avendo alcun sistema nazionale attendibile. Dopo l’intervento della ministra della Giustizia Cartabia alla Conferenza nazionale sulla Salute Mentale anche risalire al numero esatto dei detenuti “sine titulo” non è stato semplice. Dopo lunghe verifiche al 5 luglio erano 64 ridotti a 21 al 15 ottobre con la prospettiva di arrivare a zero entro fine anno. Nel frattempo se ne sono aggiunti altri 18. Siamo di fronte a piccoli numeri, ampiamente affrontabili ed anche la lista di attesa complessiva di circa 700 persone secondo i dati del garante nazionale, è risolvibile con una cooperazione interistituzionale che faccia passi avanti nelle prassi e superi analisi nelle quali la sanità sempre inadempiente.
Certamente vi sono forti differenze a livello regionale e ciò non dipende solo dalla psichiatria ma anche dalle prassi di magistratura, avvocatura, periti e dalla qualità dei contesti.
Nessuno deve restare detenuto “sine titulo” e soprattutto in attesa di un programma di cura adeguato, conseguente ad un’accurata valutazione condivisa con periti e magistrati.
Se il nuovo modello nel complesso funziona, non c’è da meravigliarsi che sia oggetto di attenzione. Va detto con chiarezza che il sistema delle REMS deve restare sanitario ed è del tutto fuori luogo ogni tentativo di riportarlo nell’ottica giudiziaria, di comandarlo e disporne facendolo gestire ad una sanità sottomessa. Una deriva di questo tipo aprirebbe, almeno per me, un’obiezione etica e tecnica perché, una REMS staccata dal territorio e magari forzata nel numero chiuso, diventerebbe con buona pace delle migliori intenzioni, inevitabilmente un nuovo pericoloso miniOPG.
Abbiamo dimostrato che è possibile fare senza l’OP e l’OPG e questo come ogni legge che riguarda la psichiatria riguarda la salute mentale di tutti, il patto sociale. Nello specifico dei reati, l’applicazione della legge 81/2014 interroga sul senso della misura giudiziaria, pena o misura di sicurezza, non solo per i malati di mente ma per tutti.
E’ su questo che occorrerebbe riflettere e anziché tentare di riportare le REMS sotto il controllo dell’Amministrazione penitenziaria, si dovrebbe lavorare per cambiare l’esecuzione penale, vedere come si possono potenziare le misure alternative alla detenzione in carcere. E’ essenziale un forte spostamento di risorse dagli Istituti di Pena all’esecuzione penale esterna e darsi l’obiettivo ambizioso ma realistico di dimezzare il numero delle persone detenute, tornando ai livelli degli anni 70.
E’ del tutto inaccettabile la richiesta della giustizia di poter utilizzare alle sue condizioni le strutture del DSM, a partire dagli SPDC.
Ancora molto alto è l’utilizzo delle misure di sicurezza detentive provvisorie con funzioni cautelari che andrebbero totalmente abolite.
In fase esecutiva, nonostante siano giuridicamente diverse, vi è una forte è la sovrapposizione tra misura di sicurezza detentiva e detenzione, con l’aggravante che le prime non possono usufruire di quella flessibilità prevista ad esempio dalla legge 67/2014 (detenzione domiciliare, messa alla prova o i lavori socialmente utili). La misura di sicurezza detentiva è rigida da effettuarsi solo in REMS: un’eredità dell’OPG che va abolita.
Va poi ricordato che la libertà vigilata non vede termini prefissati e può essere prorogata sine die come se la persona con disturbi mentali autrice di reati non potesse più essere un libero cittadino.
Nonostante la legge 180 vi sono ancora forti discriminazioni a danno del malato mentale e credo che non possiamo solo stare sulla difensiva ma rilanciare.
A breve chiuderemo la REMS di Casale di Mezzani. Permettetemi di ringraziare vivamente tutti i pazienti, gli operatori e le operatrici (un’equipe in larga parte femminile) e complimentarmi con tutti loro tramite la Dr.ssa Giuseppina Paulillo, che ha dimostrato come sia possibile una gestione in grado di coniugare mandato di cura e sicurezza relazionale. Un insegnamento per tutti.
Se da un lato dispiace pensiamo sia una grande occasione per dimostrare come le REMS siano state funzionali a chiudere l’OPG e che ora si tratti di andare molto più avanti e sviluppare un altro sistema.
Infatti, se vi sono richieste ci sono custodiali in parte ciò dipende da come sono stati chiusi gli OPG. La maggior parte dei pazienti anche con misure giudiziarie è nel territorio ma l’attenzione è sulle REMS.
Queste ultime pur nelle differenze regionali, hanno in larga parte ereditato dagli OPG modelli operativi molto custodiali, porte chiuse, telecamere, vigilanti armati. Tutto oltre a quanto previsto dai requisiti del DM 1 ottobre 2012 del Ministero della Salute.
In altre parole si è sviluppato un modello fortemente diverso dalle Comunità Terapeutiche e dalle Residenze. La psichiatria ha fatto proprio un mandato custodiale e gli elementi limitativi della libertà sono molto importanti e rassicuranti per la giustizia. L’equilibrio raggiunto, nonostante punte avanzate, rimane dal mio punto di vista ancora insoddisfacente e bisogna andare oltre le REMS. Non basta difendere territorialità, numero chiuso, assenza di contenzioni e un approccio fondato sulla recovery.
E’ venuto il momento per dire che non vi devono più essere strutture psichiatriche dedicate all’esecuzione penale in sé, la persona potrà avere anche una misura giudiziaria, ma non un luogo di cura gestito da sanitari, dove necessariamente deve restare, anche a prescindere dai suoi bisogni di salute.
Ammissioni e dimissioni devono essere decise dallo psichiatra e non da giudici (o altre autorità). Era così nei manicomi civili, ai sensi della legge 36 /1904, poi abrogata dalla legge 180. Deve avvenire anche per il post REMS. Le strutture per la salute mentale (e tutte le sedi sanitarie) devono essere assolutamente prive di armi. Su questo occorre una campagna di prevenzione e sensibilizzazione prima che vi sia un grave incidente.
Andare in questa direzione significa aumentare le competenze forensi dei DSM. Con adeguate risorse di personale ed economiche vanno poi sviluppati programmi territoriali, progetti sostenuti da Budget di Salute in grado di agire in termini abilitativi negli assi dell’abitare, formazione lavoro, interessi e attività sociali che sono essenziali per il recupero della persona e la fruizione dei diritti di cittadinanza.
Questo rende effettivo un punto negletto della legge 81/2014 e cioè che, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza detentiva, non rileva il punto 4 comma 2 dell’art. 133 c.p. le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. Ne dovrebbe conseguire un impegno fattivo dell’intero sistema di welfare per assicurare i diritti (lavoro, reddito, casa) rimuovendo le condizioni favorenti la commissione dei reati. Il nuovo sistema richiede un lavoro nelle comunità locali (Sindaci ecc.) per ricreare microcomunità sicure e solidali attraverso microzone, portinerie, uso di nuove tecnologie, una corretta informazione dell’opinione pubblica. Tutto ciò è indispensabile per favorire le pratiche di giustizia riparativa.
Quindi un modello innovato, di comunità può prevedere ambiti dedicati, anche sperimentali per affrontare con maggiore efficacia ed adeguate tecniche la psicopatia, sex offender, autori di femminicidi rispetto ai quali va assolutamente sviluppata la prevenzione. Questo vale anche per i disturbi da uso di sostanze ed andrebbe profondamente rivista la legge 309/1990 in modo da evitare la detenzione ( il 32% dei detenuti in Italia ha problemi di sostanze, contro una media del 18% in Europa) e al contempo vanno implementati modelli incentrati sulla riduzione del danno e la recovery e non sulla costrizione e la privazione della libertà (inadatto ad affrontare disturbi con andamento cronico recidivante).
Nonostante le preoccupazioni credo che non si possa tornare indietro, non accadrà, troppo alto il patrimonio di esperienze, di collaborazioni interistituzionali, numerose le buone pratiche che si sono sviluppate in questi anni.
E’ importante la ricostituzione dell’Osservatorio Nazionale, e sarebbe molto utile la convocazione di una Consensus conference nazionale che individui, condivida, avvalori e diffonda le buone pratiche. Questo può portare alla crescita di tutti (magistrati, psichiatri, periti, avvocati, uepe, garanti, sindaci e prefetti).
Sono da innovare gli strumenti della magistratura che ancora utilizza quelli in vigore in OPG (licenze ad horas, licenze finali esperimento) quando invece dovrebbe stabilire un suo patto con la persona dove stabilire impegni e limiti.
La psichiatria deve basarsi su consenso, partecipazione e responsabilità, per un programmazione condivisa delle cure nella libertà secondo le migliori conoscenze scientifiche. La persona è parte della comunità che ha un preciso ruolo nella creazione del benessere. Per questo il ruolo dei garanti nazionale, regionale e di Parma che ci hanno fatto ripetutamente visita alla REMS e che ringrazio vivamente, dovrebbe essere esteso alle persone con libertà vigilata o in esecuzione penale esterna. La tutela dei loro diritti è fondamentale è per questo bisogna riconoscere la piena imputabilità della persona con disturbi mentali superando per sempre il doppio binario.